Appesantito da un sonno atavico ma consolato dal fatto che avrei goduto di un bel film, ho proceduto alla visione di “Ready player one”. L’alta aspettativa aveva avuto la meglio sulla stanchezza, così la comoda poltrona mi accolse, il grande schermo si illuminò, e iniziò il racconto spielberghiano. Come è andata?
Premetto che le righe che seguiranno illustrano un giudizio inficiato dal pressing a tutto campo di Morfeo, quindi, forse un giorno mi sveglierò dall’incombente torpore e mi adopererò per rielaborare le mie impressioni sull’ultimo giocattolone di Steven Spielberg. Ecco già un’anticipazione del giudizio finale: non filmone ma giacattolone! Vediamo perché: “Ready player one” è un film per il grande pubblico, fatto (benissimo) per intrattenere l’adulto come il piccino. A Spielberg riesce anche un’operazione leggermente più complessa: intrattiene il fanciullo odierno e il “fanciullino” del più attempato.
E’ Il 2045. Il futuro è alquanto distopico: l’umanità, in evidente declino, ha eletto a ciambella di salvataggio, la realtà virtuale di “Oasis”, luogo digitale e popolato da avatar, dove si può prendere parte alle più disparate attività: lavoro, istruzione e intrattenimento. Il teen-hero di turno (ormai lo young-adult è sia moda che attualità), Wade Watts, assiduo frequentatore di OASIS, tenta di vincere il “Gioco di Anorak”, una serie di sfide create dall’ideatore di OASIS, James Halliday, morto da poco: chi troverà il tesoro del gioco acquisirà il possesso di OASIS e l’eredità miliardaria di Halliday.
La genialata dove sta? Risiede nell’intuizione di aver creato una realtà virtuale dal sapore vintage e evocante gli anni ’80. Due piccioni con la famigerata e singola fava. I piccioni sono, da un aprte, i giovani attirati dal mega-game e, dall’altra, gli adulti eterni peter pan nostalgici degli 80. Il target è colpito e affondato da uno Spielberg che non sembra risentire delle angherie dell’anagrafe e che, soprattutto, sembra ringiovanire quando parla di un periodo che lui stesso ha contruibuito a farlo divenire iconico (Ah, che bello! Finalmente ho potuto utilizzare anche io sto parolone molto cool).
Ma torniamo al film in sé. Molto intrattenimento, che va pure bene, non tantissima sostanza. Il romanzo dal quale è tratto il film, a detta di molti, sembra avere molto più ciccia distopica rispetto alla versione cinematografica che la declina solamente come ambientazione per un game movie di ottima fattura sicuramente, ma oltre al gioco e all’azione, non si va. E allora, che farsene di un giocattolone ben fatto? Giocarci senza soluzioni di continuità, dimenticando tutto resto. Dimenticando la realtà e il romanzo (se lo si è letto). D’altronde Spielberg è un fabbricatore di sogni e i sogni sono la realtà virtuale più a portata di mano.
E ora lasciatemi dormire: ne ho bisogno per riposare e soprattutto per sognare.