Buongiorno Amici, oggi vi voglio parlare di un Artista davvero particolare.
Si tratta di Giacomo Doni, il fotografo che mi ha fornito il materiale per la scorsa puntata di DANGER.
Nato a Firenze nel 1980, si è formato come grafico pubblicitario presso l’Istituto Professionale “F. Datini” di Prato dove ha avuto il suo primo contatto con la fotografia.
La sua fotografia è rivolta principalmente a quelle aree che sono rimaste bloccate nel tempo, vuote e silenziose ed è usata come veicolo di tutela della memoria, per preservare la vita e la storia di questi luoghi dimenticati.
Dal 2006 sta realizzando una ricerca di conservazione storica delle ex strutture manicomiali del nostro paese, dedicata solamente agli edifici che non sono stati riconvertiti a diverso uso dopo la legge 180 del 1978, che ha portato alla documentazione fotografica e didascalica di svariate strutture distribuite sul nostro territorio nazionale.
Giacomo è davvero una persona capace di trasmettere emozioni forti attraverso le sue fotografie, e per me è stato un piacere poterlo intervistare.
Buongiorno Giacomo e grazie per aver accettato di aprire le porte del tua conoscenza a Leggere Distopico. Grazie al tuo contributo siamo riusciti ad esplorare con maggiore accuratezza il Manicomio di Mombello. Oggi però tocca a te.
Cosa ti ha spinto a scegliere di dedicare la tua carriera a una ricerca tanto particolare legata alla conservazione storica delle ex strutture manicomiali?
Buongiorno Liliana e buongiorno a tutti i lettori di Leggere Distopico. Per rispondere alla tua domanda occorre fare un piccolo salto indietro nel tempo, esattamente ai tempi della scuola.
Io ho una formazione in grafica pubblicitaria, competenza che mi ha permesso di seguire personalmente tutta la produzione di materiale visuale che passa dal mio sito, e negli anni in cui ho frequentato l’Istituto Professionale (1994/1999) fotografia era una materia del programma. In quegli anni ho sviluppato a mano le mie prime pellicole in bianco e nero, sono entrato a contatto con la splendida luce rossa della camera oscura e fatto le prime stampe. Ma finita la scuola, sono stati necessari altri 6 anni prima di farmi riprendere in mano la macchina fotografica.Tutto cominciò in modo casuale: capitai involontariamente su un sito di un fotografo Belga (Henk van Rensbergen sul suo abandonedplaces.com) e rimasi folgorato dall’idea di fotografare spazi vuoti, abbandonati. Fu una scintilla, decisi di prendere una piccola macchina digitale e di iniziare a cercare nelle vicinanze strutture abbandonate.
Iniziai inevitabilmente con l’archeologia industriale, le vecchie fabbriche dismesse, ma ad essere sincero non mi lasciavano niente sulla pelle. Continuando le ricerche, su internet trovai informazioni di un manicomio a Volterra e, ormai abbastanza deluso dalla mancanza di emozioni di questi spazi vuoti, decisi di tentare lo stesso una visita. E fu immediatamente amore. Dentro il sanitario ho trovato la scintilla di cui avevo bisogno: il manicomio era una componente sia architettonica che sociale totalmente da scoprire perché io sono nato nel 1980, 2 anni dopo la riforma che ha sancito il superamento dei manicomi. Curiosità, emozione e fame di ricerca sono stati gli ingredienti necessari per mettermi in moto.
Cosa provi quando ti aggiri per quelle stanze, oggi vuote, che in passato sono state testimoni di una sofferenza che in pochi, al di fuori, hanno conosciuto?
Per me fotografare un ex manicomio (ad oggi ne visitati 18 e pubblicati sul sito 15) non è soltanto un percorso narrativo: ci si immerge in un silenzio artefatto che parla direttamente al nostro intimo. Entriamo in contatto con la storia, una storia palpabile e pesante, che può scomparire da un momento all’altro, scopriamo il senso dell’esclusione e dello stigma, camminiamo negli stessi spazi di un’umanità invisibile e guardiamo fuori dalle stesse finestre. Aggirarsi fra quelle stanze vuol dire recuperare un pezzo di storia da raccontare, oggi più che mai necessaria.
Ci sono luoghi che hai fotografato che ti hanno segnato in maniera indelebile?
Posso dire che ogni luogo fotografato mi ha segnato in modo indelebile, perché sono tutti tasselli essenziali di un mosaico emotivo dove non sono presenti pezzi più grandi di altri. Però, se devo entrare nel dettaglio, posso citare alcuni luoghi che hanno in qualche modo influenzato in modo importante la mia ricerca, ne cito solo 5:
Volterra (https://www.giacomodoni.com/persistenze/manicomio-di-volterra/) perché è stata la prima struttura che ho visitato e che mi ha spinto a iniziare questa ricerca. Vedere per la prima vota il Graffito di Nannetti (https://www.youtube.com/watch?v=LqJxkJuA8z4) è stato indescrivibile.
Lucca (https://www.giacomodoni.com/persistenze/manicomio-di-lucca/) perché è stato il prima manicomio ufficiale che ho fotografato per la mia ricerca. Novembre 2006, la mia prima richiesta di permessi accettata, una giornata grigia e il mio cuore era zeppo di emozioni.
Cogoleto (https://www.giacomodoni.com/persistenze/manicomio-di-cogoleto/) perché è stato il manicomio più grande d’Italia e quello in cui ho tessuto un rapporto profondissimo con la cittadinanza. In questo manicomio ho visto per la prima volta il Presepe, un’opera collettiva fatta da pazienti ed infermieri, ho fatto la mia prima conferenza pubblica nel 2015, ho conosciuto persone meravigliose che porterò sempre con me. È la struttura che più di tutte mi ha insegnato cose importanti sulla vita: mi ha insegnato ad avere pazienza, a non arrendermi e a guardare le cose sotto punti di vista diversi (https://www.giacomodoni.com/2018/11/olc/). La considero “casa”, senza se e senza ma.
Voghera (https://www.giacomodoni.com/persistenze/manicomio-di-voghera/) è il manicomio che ho fotografato di più, che ho documentato con più profondità.
Sto studiando, insieme all’Associazione locale, una strada per salvare la memoria storica di questa struttura. Lo dobbiamo fare, e mi impegnerò al massimo per portare a casa il risultato. Lo dobbiamo fare non soltanto per noi e per restituire alla cittadinanza un bene importantissimo, lo dobbiamo fare per chi ci ha sempre sostenuto e che, purtroppo, adesso ci veglia dall’alto.
OPG di Montelupo Fiorentino (https://www.giacomodoni.com/2018/09/lultimo-manicomio-criminale/) il luogo che mi ha fatto capire più di altri l’importanza di raccontare l’uomo, e tutto quello che una persona può produrre in questi spazi di reclusione. Possiamo dire che questo luogo mi ha fatto ancor di più capire il mio interesse verso l’antropologia.
Ovviamente una nota va anche a Mombello perché, con l’album di Aragozzini, mi ha insegnato molto sulla necessità di raccontare.
Cos’è per te la fotografia?
La fotografia è un linguaggio, un linguaggio particolarissimo perché non conosce confini, differenze linguistiche e spazi temporali. Noi leggiamo fotografia indipendentemente dal tempo e dallo spazio. È una lingua universale che tutti possono parlare e che oggi è più che mai diffusa in tutto il mondo grazie al digitale e agli smartphone.
Per farti avere un’idea sulla fotografia, in un’interessante ricerca dell’Huffpost che cito in un post che ho scritto su Medium (https://medium.com/@giacomodoni/sulla-fotografia-della-memoria-7efd825eb770) sai quante fotografie sono state scattate da smartphone nel 2014? 880 Miliardi. Un numero che non può e non deve passare inosservato.
Credi che un’immagine possa trasmettere l’esatto opposto di ciò che è in realtà?
Certo, assolutamente si. Il distinguere il vero dal falso si basa in primis sul nostro bagaglio culturale e sul senso critico. Una fotografia può raccontare tutto e niente, esattamente come un testo. Però ha una caratteristica molto interessante: la fotografia si arricchisce con significati nuovi grazie al tempo, grazie a quello che accade dopo. E questi significati possono stravolgere o arricchire il senso di quello che stiamo guardando.
Hai dei progetti in cantiere dei quali ti va di parlarci?
Assolutamente si: in primis voglio parlarti di Punto 180, il primo gioco da tavolo sulla legge 180 a cui sto lavorando dal 2012 e che lancerò a Marzo 2020 in crowdfunding. Punto 180 sarà uno strumento aggregativo per tutte le realtà che fanno memoria culturale in spazi di ex manicomi. Poi dovrò finire di raccontare i manicomi spostandomi in alcune aree che non ho ancora visitato nel sud Italia e raccogliere interviste di memorie orali da inserire nel sito come approfondimento al materiale fotografico. Inoltre dovrò iniziare a fotografare il dopo, raccontare contesti urbani in cui sono stati inseriti i pazienti alla chiusura dei manicomi. Insomma, diciamo un bel po’ di cose ci sono in cantiere.
Un luogo che vorresti immortalare nei tuoi scatti?
La città di Geel in Belgio, che spero un giorno di riuscire a fotografare. E lo vorrei fare nel mese di Maggio, nel mese di Santa Dinfna. Conosci questa Santa? È la Santa patrona delle malattie mentali (https://www.giacomodoni.com/2017/06/santa-folli/)
Quando entri in “contatto” con la storia di qualcuno che ha trascorso la propria esistenza in una di quelle strutture, cosa provi?
Sento un grande senso di responsabilità. Sono testimone di una realtà che, inesorabilmente, sta per essere spazzata via dal tempo. E con essa anche le storie che porta dentro di sé. Entrare in contatto con le memorie orali ci mette di fronte a delle storie di un’importanza unica che non possiamo assolutamente permetterci di perdere.
Credi che dopo la legge 180 del 1978 le cose siano migliorate in campo psichiatrico?
Io non sono un medico e quindi non posso parlare di temi psichiatrici ma, avendo fatto ricerca sul campo posso dirti che il manicomio in primis è un luogo di esclusione sociale. È un criterio. È un luogo per allontanare da un’utopica società perfetta, tutto ciò che non era “allineato”. L’evoluzione in campo medico ha permesso di identificare molte patologie, che in passato prevedevano la reclusione e di offrire cure idonee. Ti faccio l’esempio dell’omosessualità che, in passato, era pretesto di reclusione in manicomio ed oggi è orientamento sessuale. Su questa domanda bisognerebbe fare anche un profonda riflessione su come molti disturbi siano mutati a seconda del periodo storico, come si siano trasformati parallelamente alla crescita civile e industriale delle città.
Secondo te, prima della legge Basaglia, in percentuale quante persone fra quelle ricoverate si possono considerare vittime del sistema?
Prima della legge 180 i manicomi erano ordinati da una legge del 1904 che prevedeva la pericolosità sociale come elemento di reclusione in manicomio. Adesso immagina cosa si può nascondere dentro la frase “pericoloso per sé e per gli altri”. Tutto e niente. Dentro questa frase si possono nascondere tutti: dai figli illegittimi alle amanti, dai dissidenti alle donne che non volevano sottomettersi al marito, dagli epilettici agli ubriachi. È questo il lato che mi interessa scoprire del manicomio, il suo impatto sociale e la profonda differenza fra i due mondi separati dal muro, un divisorio che non sappiamo più se escludeva o difendeva. Quello che faccio con la mia ricerca è seminare storie per combattere un muro che non è fisico ma mentale, ed è quello più importante da sconfiggere: quello dello stigma, dell’esclusione e della paura.
A questo punto non mi resta che ringraziare Giacomo per essere stato così gentile da rispondere alle mie domande (tanto lo sa che tornerò a stressarlo quanto prima). Cari Lettori, fate un salto sul sito di Giacomo mi raccomando e immergetevi nel suo lavoro. Sono certa che, come me, ne resterete affascinati ^_^
Un bacio dalla vostra Distopica Liliana Marchesi