Trama: A un corso di Horowitz, a Salisburgo, si incontrano tre giovani pianisti. Due sono brillanti, promettenti. Ma il terzo è Glenn Gould: qualcuno che non brilla, non promettente, perché è. Una magistrale variazione romanzesca sul tema della grazia e dell’invidia, di Mozart e Salieri, ma ancor più sul tema terribile del “non riuscire a essere”.
Recensione:
La trama di questo romanzo si potrebbe riassumere così: tre giovani pianisti si conoscono a Salisburgo e da quell’incontro nascerà un’amicizia che, per due di loro, farà vacillare ogni sicurezza.
Un trittico il cui vertice è rappresentato da Glenn Gould, un autentico prodigio della musica (realmente esistito) che con il suo talento innato oscura e annichilisce gli altri due.
Incontriamo un uomo come Glenn e questo incontro ci annienta, ritengo, oppure ci salva, nel nostro caso Glenn ci ha annientati, pensai.
Poi c’è Wertheimer, il soccombente che dà il titolo al romanzo, presa la piena consapevolezza della sua incapacità è attanagliato da un forte senso di fallimento che lo trascinerà – a seguito di un avvenimento per lui devastante – a intraprendere la strada del suicidio; infine c’è la voce narrante ad occupare una posizione di mezzo, non ne conosceremo mai il nome, ma potremmo soprannominarlo “Il pensatore” visto che ciò che leggiamo è il filo dei suoi pensieri. La sua decisione di fare il pianista era dettata più da una voglia di indipendenza che non da una passione genuina, infatti mollare tutto non è stato traumatico. Rispetto a quella di Wertheimer la sua è una sconfitta meno eclatante, caratteristica di questo personaggio è la sua ignavia.
Nulla di quanto scritto finora è da considerarsi un’anticipazione rilevante perché, a grandi linee, si tratta del quadro degli eventi presentatoci fin dalle prime pagine.
Una trama apparentemente “semplicistica”, eppure Il soccombente (Der Untergeher) nasconde molto di più.
Se guardiamo con attenzione gli esseri umani, ci disse Glenn una volta, non vediamo altro che mutilati, mutilati esteriormente o interiormente […] Quanto più a lungo guardiamo con attenzione un essere umano, tanto più egli ci appare mutilato […] Il mondo è pieno zeppo di mutilati. Camminando per la strada incontriamo soltanto mutilati.
Mi sono imbattuta in Thomas Bernhard scorrendo un’intervista di uno dei miei scrittori preferiti: Thomas Ligotti; egli asseriva che nei suoi romanzi sia possibile trovarvi un forte nichilismo e se a dirlo è lui – le cui opere sono impregnate del più nero pessimismo cosmico – la curiosità è decisamente salita alle stelle.
Quello che vi apprestate a leggere è un delirante flusso di coscienza, strutturato in forma di disordinato soliloquio tra presente e passato che, con opportuna lentezza, racconta un forte dramma interiore.
La narrazione è tutta una dicotomia tra il dislivello della tecnica e la predisposizione che sfocia nell’unicità, l’arrendevolezza di fronte al raggiungimento dei limiti delle proprie capacità e l’estro creativo in continuo sviluppo, la ritrosia e il cercare l’approvazione negli altri.
Uno stream of consciousness caratterizzato da martellanti ripetizioni – quasi un loop ossessivo – che non necessita di suddivisione in capitoli; il pensiero corre “a briglia sciolta”, da un ricordo ne scaturisce un altro e da quello un altro ancora, elaborando una vera e propria associazione di idee e riflessioni. Quel “pensai”, posto di tanto in tanto a chiusura delle preposizioni, ci rammenta che il narratore è seduto in una locanda a rivangare il passato, lasciandosi andare ad elucubrazioni del pensiero e con questo espediente l’autore riesce anche a delineare efficacemente la psicologia dei personaggi.
Ora ho potuto constatare in prima persona che con le sue parole Bernhard ci sconquassa dentro, porta in superficie le tenebre recondite tipicamente umane e pone l’accento su sentimenti talvolta poco approfonditi come l’invidia, l’autocommiserazione e il rancore. Una lettura asfissiante, eppure profondamente credibile.
Quella sua sottile spietatezza fatta di cinismo e ironia apre veri e propri squarci.
Elisa R