La distopia spesso ci ha mostrato l’integrazione della tecnologia nella vita quotidiana, ci ha spiegato in anticipo quanti limiti fosse possibile varcare, ci ha raccontato come l’industria elettronica potesse diventare parte integrante dei nostri giorni, il tutto proiettato in un futuro non ben preciso. E il futuro sta diventando presente. È ora.
È nel modo di organizzare la casa, con la domotica, è nella comunicazione globale, fonte infinita di risorse, è nei giochi. Nei videogiochi, con esattezza.
Ecco, in quel campo il futuro lo teniamo a braccetto, perché possiamo perlustrare repliche di realtà accuratissime tramite i visori 3D, mentre siamo isolati dai suoni esterni, onde evitare distrazioni, e dare forma ad avventure elettrizzanti. Il nostro corpo è in un mondo, la mente in un altro. Per questo ci si confonde.
Così succede che un 23enne californiano si scaldi tanto, ma tanto davvero, per una discussione avvenuta durante il game play on line di Call of Duty, e arrivi a compiere un viaggio di quasi 5000 km per dirlo al suo rivale: un ragazzino di 18 anni, lo streamer col quale ha discusso. Solo che quando arriva non gli parla.
È furibondo per come si è comportato quel tipo, un arrogantello chiassoso che merita di pagarla cara.
Il viaggiatore prende un serbatoio di propano e lo incendia per attirare l’attenzione del ragazzino. Lo vuole fuori di casa. Infatti Matthew esce, e in quel momento il 23enne gli spara. Varca i limiti. Lo uccide, lì, nel suo giardino, nel suo corpo di carne. Nessun avatar, nessun nuovo caricamento.
Matthew Thane è morto perché quei limiti, quelli di un semplice gioco, sono stati allargati, distrutti dalla rete, e sono arrivati alla realtà.
Ma il problema quale dovrebbe essere? Di chi è la colpa: della tecnologia o di chi la usa?
Michela Monti