Salve gente in fissa con la distopia!
Eccomi di nuovo qui con un nuovo titolo, questa volta molto inoltrato nella fantascienza, ovvero Murderbot di Martha Wells. Un Oscar Mondadori, niente di meno.
Via con la trama:
Ogni aspetto dalla vita è dominato dalle grandi corporazioni, missioni interplanetarie comprese: è la compagnia, infatti, che le gestisce, rifornendole di tutto il necessario. “Tutto il necessario” comprende anche gli androidi di sorveglianza, che tutelano l’incolumità delle squadre d’esplorazione. Ma in una società in cui i contratti vengono aggiudicati al miglior offerente, la sicurezza non è esattamente in cima alla lista delle priorità. E così può capitare qualche imprevisto.
Per esempio qualcosa di strano succede su un lontano pianeta, dove alcuni scienziati stanno conducendo rilievi sulla superficie, convinti che l’Unità di Sicurezza con componenti organiche fornita dalla compagnia vegli su di loro. Murderbot, però, è riuscita a hackerare il proprio modulo di controllo, e si è accorta di avere accesso ai file multimediali di tutti i canali di intrattenimento. E così preferisce di gran lunga passare il suo tempo tra film, musica, serie tv, libri, giochi, piuttosto che dedicarsi a quegli incarichi noiosi e ripetitivi che non lasciano spazio al suo libero arbitrio. Dotata di una sensibilità tutt’altro che meccanica, Murderbot inizia un avventuroso viaggio alla ricerca di sé che la porterà a scoprirsi assai diversa da quello che i suoi protocolli avrebbero previsto.
Raccoglie i romanzi brevi Allarme rosso, Condizione artificiale, Protocollo ribelle, Strategia di uscita.
E questo era il copia e incolla dal sito della Mondadori. Ora spieghiamo meglio: la compagnia fornisce su contratto un sistema di sicurezza, che spesso e volentieri include anche delle SecUnit, gli androidi che avete letto nella trama. Queste sono composte con parti meccaniche, ma anche con parti organiche. La nostra protagonista, Murderbot, è appunto una SecUnit.
Come scritto sopra, l’opera è composta da quattro storie brevi, storie che però sono collegate l’un l’altra. Diciamo che possono essere definite come quattro capitoli lunghi, divisi a loro volta in sottocapitoli. E questa era la struttura.
Parlando invece delle trama vera e propria, credo che Murderbot possa essere definito un libro d’azione. La SecUnit protagonista riesce a distinguersi dalle altre SecUnit, appunto hackerando il proprio sistema di controllo, ma rimane per tutto il romanzo una sorta di consulente per la sicurezza, con un plus di armi e skill informatiche, elementi molto utili in un mondo dove il feed è sempre online. Quest’ultimo sarebbe l’equivalente del nostro attuale internet, solo proiettato in un mondo interplanetario, in un futuro molto lontano dai giorni nostri.
Cercando di non fare troppi spoiler, Murderbot si ritrova a non essere più vincolata da alcun ordine: una macchina (con parti organiche) che può essere libera di fare quello che più desidera. Murderbot però non ha idea di quello che desidera. Lei vuole guardare le sue serie preferite, ma per il resto, non sa che scelte fare.
Come dicevo, più che avventura, più che esplorazione dei pianeti e degli ambienti, abbiamo tanta azione. Tantissima. E quasi tutta in contemporanea con i pensieri di Murderbot, tanti pensieri: questo può far diminuire la suspense. È stato comunque bello immaginarsi i combattimenti tra le SecUnit.
Un punto interrogativo sono i personaggi. Ora, non dubito che l’autrice non li sappia caratterizzare, ma sono quasi convinto che abbia scelto di non caratterizzarli. Mi spiego meglio.
Tutti gli umani dentro il romanzo sono poco disegnati. Abbiamo Mensah che è a capo del piccolo gruppo di esplorazione in Allarme rosso, il primo grande capitolo. E quello che al lettore rimane impresso (o almeno a me) è che Mensah è un capo. Punto.
C’è anche Gurathin che è leggermente disegnato meglio, ma solo perché è quello antipatico del gruppo, o almeno quello che a Murderbot non piace.
Tutti gli altri umani sono disegnati a stento, almeno a livello caratteriale.
Ma se passiamo alle intelligenze artificiali, ecco, queste sono disegnate benissimo. ART è l’IA di una nave con una capacità di calcolo enorme, eppure l’autrice è riuscita a renderlo vivo, a differenziarlo dalle altre intelligenze artificiali attraverso piccole particolarità, in primis il fatto di voler essere amico di Murderbot.
Lo stesso vale per Miki, un robot di compagnia che però non viene considerato tale dagli umani che lo hanno in possesso. Miki, nonostante sia comunque un’intelligenza artificiale, risulta essere un amico vero e proprio per i suoi umani, perché appunto si comporta da amico e non da strumento meccanico con un padrone.
Quindi i personaggi artificiali sono caratterizzati, quelli umani molto meno. Ripeto: credo sia una scelta stilistica. Una scelta che comunque non mi entusiasma, ma che potrebbe essere giustificata per il fatto che il romanzo è scritto dal punto di vista di Murderbot, che potrebbe vedere gli umani come tutti uguali tra loro, o al massimo distinti in due categorie: clienti e non clienti. Questo almeno all’inizio.
Forse avrei preferito qualcosina di più a livello di ambientazioni. Immagino sia un’altra scelta dell’autrice. Peccato, perché i pianeti inventati, con la loro flora e la loro fauna, avevano molto potenziale su questo aspetto.
Il messaggio che a me è filtrato è la libertà. Sì, c’è il problema etico di schiavizzare una macchina intrappolata in un corpo umano (o quasi), ma si va sempre a parare sulla libertà, a mio avviso. Murderbot hackera il proprio modulo di controllo proprio per guardare le sue serie preferite. Okay, quando si ritrova svincolata dalla compagnia non sa che fare della propria “vita”, ma l’autrice lascia intendere che è comunque meglio non sapere che scelta fare piuttosto che essere costretti a obbedire senza la possibilità di scelta.
Poi abbiamo anche tematiche più vaghe come l’amicizia, già accennata sopra. Amicizia anche tra intelligenze artificiali.
Riassumendo il tutto, lettura non sgradevole, spesso e volentieri piacevole. Ammetto che mi aspettavo di più, ma il risultato tutto sommato non è male.
Alex Coman