Al ragazzo che ha girato questo documentario è successo quello che mi accade quando scrivo: parto da una ricerca collegata a un singolo elemento e vado a finire in un ginepraio, o un giro di schiaffi, come preferite.
Il punto è che Kip Anderson voleva indagare le irregolarità legate alle baleniere ed è finito ad analizzare, in maniera chiara, con diverse argomentazioni valide, che non esiste la cosiddetta pesca sostenibile e che al mercato ittico è legata la nostra estinzione (nonché tante altre cose, tipo l’ebola).
Guardando questo documentario ho aperto gli occhi per l’ennesima volta su quello che noi uomini facciamo a noi stessi. Non stiamo solo distruggendo e uccidendo; ci stiamo proprio suicidando!
Il documentario non è solo l’ennesima denuncia allo sfruttamento delle risorse, ma anche a quello umano, come viene detto: si parla dei blood diamonds, ma dei blood fish non parla nessuno. Sì, perché la schiavitù sulle navi da pesca è una realtà di cui non parla nessuno, eppure questi ragazzi vengono buttati in mezzo all’oceano e uccisi a colpi di fucile. E siamo tutti responsabili, lo scoprirete guardando il docu-film, anche se non mangiamo pesce.
Sono rimasta sconvolta vedendo che la Polizia e le istituzioni, ma soprattutto gran parte delle organizzazioni per la salvaguardia dell’ambiente, chiudono gli occhi di fronte a quello che gira intorno al mercato ittico (che poi sono certa sia la stessa schifezza che gira intorno al mercato della carne). Tutto per amore del sacro denaro. Vi invito caldamente a vedere Seaspiracy prima che venga cancellato da Netflix!
Alla prossima,
Tania Dejoannon