Non c’è altro modo per scrivere la recensione di Klara e il Sole di Kazuo Ishiguro se non quello di lasciare tutti i dubbi alle spalle e raccontare una esperienza di lettura senza alcun velo.
Malgrado una coda di lettura perennemente intasata, quando vedi uscire un libro del genere tutto passa in secondo piano e ti metti subito con tuo bel eReader a sfogliare pagine digitali.
Le aspettative sono quell’asticella piazzata oltre ogni limite immaginabile, spinta ancora più in alto dal ricordo di uno dei libri più belli che abbia mai letto (“Non lasciarmi” pubblicato però ormai da oltre quindici anni) e soprattutto dal trovarsi di fronte al primo romanzo dell’autore dopo la consacrazione del premio Nobel.
Qualunque cosa sotto il livello di “super fantastico” finirebbe quindi probabilmente schiacciata sotto questo fardello insostenibile, che proverò quindi a mettere da parte per dare un senso più oggettivo alle impressioni post lettura.
Solo, non prometto di farcela in pieno.
La storia del romanzo di Ishiguro
Il primo passo è facile, perchè per raccontare la storia di questo “Klara e il Sole” basta poco.
Tutto comincia in un negozio di androidi, dove la nostra Klara è in attesa di essere venduta a uno dei tanti bambini/ragazzi in cerca di compagnia educativa. Klara infatti è un androide modello AA (Amico Artificiale), con particolari capacità empatiche che la rendono unica.
Proprio questa sua unicità farà presto colpo su una bambina di passaggio davanti alla vetrina, Josie, che la sceglierà come compagna per la sua crescita.
Anche Josie però è unica a suo modo, con una malattia che potrebbe anche portarla alla morte se qualcuno non riuscirà ad aiutarla per tempo. Le due cresceranno insieme imparando l’una dall’altra, finchè entrambe non saranno di fronte a delle scelte precise che condizioneranno la loro stessa possibilità di sopravvivenza.
Recensione Klara e il Sole
Il romanzo di Ishiguro sembra semplice, ma non lo è. Oppure, è semplice, ma non c’è niente di più difficile di rendere semplici le cose difficili. Ok, non siamo partiti al meglio, facciamo un passo indietro.
Il romanzo si apre e si sviluppa per intero con un unico e solo punto di vista: quello dell’androide Klara. Tutto ciò che vediamo e sentiamo è tramite i suoi occhi e i suoi sensi, filtrato da quella mente artificiale in grado di svolgere funzioni estremamente complesse, ma anche talmente ingenua da non riuscire a distinguere la realtà con la stessa semplicità di un essere umano.
Per questo osserviamo come sarà lei stessa a crearsene una in base alle sue personali esperienze, traendo costantemente conclusioni dalle osservazioni del mondo e delle persone che lo circondano.
Per questo non viviamo Klara come un androide meccanico, ma piuttosto come un’entità che sta imparando a vivere alla sua maniera, che sta cominciando a conoscere il mondo utilizzando i suoi personali schemi, partendo da quelle che sono le sue certezze: i suoi sensi e il sole che fornisce energia a tutto ciò che la circonda (lei compresa).
E da lettori noi dobbiamo imparare a vivere in questo suo personalissimo mondo, in cui la realtà è divisa in riquadri che vengono analizzati di volta in volta, in cui tutto è guidato dalla luce del sole che assume i contorni di una vera e propria divinità. E in cui i rapporti tra le cose e le persone non sono esattamente come li intendiamo noi e dove persino il muoversi in uno spazio a tre dimensioni è qualcosa di differente.
Stiamo in pratica vivendo un’esperienza quasi aliena, che però non ha tanto a che fare con la natura elettronica di Klara, quanto proprio con il suo modo di interagire con il mondo circostante.
Non abbiamo cioè dubbi che Klara sia “Viva”, quanto che sia effettivamente una vita diversa dalla nostra. Tanto che in molti momenti siamo portati a pensare “Ma diamine, come fai a non capire questa cosa”, mentre in altri invece ci stupiamo quasi di come senza i giusti presupposti sia comunque riuscita a tirare fuori una sua idea alternativa estremamente intelligente (per quanto folle ai nostri occhi).
Poi c’è invece la storia degli altri personaggi. Umani, senza dubbio, ma in qualche modo altrettanto alieni tra loro. Quasi a sottolineare che tutto dipende in effetti dal modo in cui noi stiamo osservando e vivendo il mondo e noi stessi, oltre che da come riusciamo ad analizzare giustamente o meno i segnali e le informazioni che ci arrivano dall’esterno e dalle altre persone.
Di fatto, l’impressione è che si voglia sottolineare come tutti in realtà siamo macchine più o meno evolute che cercano in tutti i modi di dare un senso a quello che li circonda, affidandosi a volte a qualcuno che abbiamo vicino, altre alla sola forza di volontà interiore di ognuno di noi, altre ancora mettendosi nelle mani di qualcosa che riteniamo al di sopra del tutto.
Ma anche tutto questo è solo un aspetto del romanzo di Ishiguro, che contiene nella sua semplicità almeno un milioni di altri possibili letture, livelli di pensiero, argomenti messi in ballo.
C’è l’etica rapportata alle nuove tecnologie. C’è una profonda riflessione sull’animo umano (e sull’anima umana). Ci sono i sentimenti, c’è l’amore in tante sue forme diverse (quello genitoriale, quello affettivo, quello più universale e persino quello platonico).
E poi visto che parliamo comunque di un’intelligenza artificiale, c’è l’eterno dilemma sui confini della vita. Solo che davvero, in questo caso la percezione è che non sia questo il focus di tutto. Klara è, inequivocabilmente, viva. E altrettanto inequivocabilmente, non lo è.
La fine in effetti è il momento che ho trovato più disturbante del romanzo. Ma per saperne i motivi, dovete prima averlo finito anche voi. E poi magari ne riparleremo insieme, se volete, sul gruppo di Leggere Distopico e Fantascienza Oggi.