TRAMA:
Ricchi di stile ma sempre a corto di soldi, i cacciatori di taglie Spike, Jet e Faye setacciano il sistema solare in cerca di lavoro e fanno i conti con il loro passato.
RECENSIONE:
Ho atteso un po’ prima di apprestarmi a scrivere questa recensione, ho aspettato che le sensazioni del momento si depositassero e che le idee mi si schiarissero. “Cowboy Bebop” è un cult, un punto di riferimento, un’opera che mi è entrata sottopelle e affrontare questo riadattamento non è stato semplice, almeno non all’inizio.
Un anime non può essere uguale al manga da cui è tratto, così come un film non può essere uguale allo spettacolo teatrale e un live action non può essere un anime. Ci sono tempi narrative, impostazioni visive e dettagli che non possono essere replicati negli adattamenti semplicemente perché non funzionerebbero. So bene questa cosa, per questo non faccio (quasi) mai paragoni con l’opera originale.
Il live action di Netflix è una serie nuova, che si ispira a quella originale uscita nel 1998, che ne preserva al limite del feticismo da nerd alcuni dettagli e che al contempo la riscrive per portarla dal Giappone di metà anni ’90 al Mondo del 2021. I cambiamenti sono tanto sostanziali, se li si vuole cercare, quanto superflui se si guarda l’opera nel suo complesso.
Cowboy Bebop racconta la storia cinica, sfortunata e complessa di tre anime disperate. Persone che hanno toccato il fondo, che lottano ogni giorno con la sfortuna e con un passato troppo ingombrante, e che trovano nel Bebop una casa in cui sentirsi al sicuro. Un vecchio rottame rottame, malandato come i loro cuori, ma ancora capace di vivere.
Attraverso le disavventure di caccia, scopriamo le ferite che si nascondono dietro al volto di pietra di Jet, la solitudine che porta nel cuore le piccola Faye o il dolore che Spike nasconde dietro un cinismo al limite del leggendario. Tre individui tanto diversi da riuscire a compensarsi, tre cacciatori di taglie che navigano tra il decadentismo umano senza mai scomporsi. Che giocano con la vita, e con la sorte, tentando di sbarcare il lunario o di inseguire piccole soddisfazioni in una vita fin troppo crudele.
Se guardate la serie per quello che è, quasi tutto funziona a dovere. La fotografia è bellissima, l’uso dei colori e le ambientazioni da western futuristico sono perfette, i personaggi sono credibili e le interazioni più che buone. Le battute taglienti, gli inganni e il disinteresse per tutto, o il “è tutto talmente normale da non meritare di focalizzarci sui dettagli”, rendono l’intera costruzione narrativa e d’ambientazione molto bella. Mustafa Shakir è un Jet Black meraviglioso, John Cho da vita a uno Spike ironico e sorprendete, Daniella Pineda è una Faye determinata e combina guai.
Come dicevo funziona QUASI tutto a dovere. Sfortunatamente ci sono delle cose che non mi hanno convinto, una su tutte l’improponibile parrucca bianca di Alex Hassell, nei panni di Vicious, che lo fanno sembrare un cosplayer che ha riciclato avanzi del costume di carnevale. Così come il modo in cui interpreta (o gli hanno fatto interpretare) il suo personaggio, più simile a una caricatura che a un mafioso-psicopatico del futuro. Altra cosa che mi ha convinto poco, ma qui entriamo in qualcosa che forse ho notato solo io per via dei miei trascorsi marziali, sono i combattimenti. A meno che non sia voluto, ogni scontro avviene con inquadrature posteriori o con giri di telecamera atti a non mostrare mai l’attore in volto. La cosa è molto evidente quando combatte Spike e credo sia stata fatta per inserire gli stunt al posto degli attori. Per l’amor del cielo, nulla di strano, ma se ci fate caso sono anni che nei film si riesce a evitare questo effetto con montaggi “adeguati” e trovarmi davanti a questa cosa molto anni 90 mi ha lasciato stranito.
Il discorso è leggermente differente se invece si prova a paragonare l’adattamento di Netflix all’opera originale. Tralasciando la storia, che è stata riadattata, ci sono alcuni dettagli che potrebbero far storcere il naso a molti appassionati. John Cho ha almeno una quindicina più del dovuto, e si vede. Faye più che una giocatrice d’azzardo/femme fatale è un incrocio tra Lara Croft e Dennis la minacia. Vicious è una parodia di sé stesso e l’anima pulp e resiliente della serie scompare per lasciar posto a una sequela di battute o di scene che sembrano tratte dal Bunraku giapponese.
In conclusione posso dirvi che Cowboy Bebop è una serie discreta, divertente e ben congeniata, ma con qualche grosso limite registico (almeno per me). Guardatela e cercate di non fare paragoni con l’opera originale, sono quasi certo che a molti di voi piacerà.
A presto.
Delos