TRAMA:
La pandemia costringe milioni di persone in ogni angolo del pianeta a rimanere distanziate. Dal deserto del mondo alla sorveglianza degli esseri umani, dalla paura di essere toccati alle vite controllate dal potere: ecco i tratti di uno scenario distopico che sembra materializzarsi nell’anno zero del Covid-19. La realtà va oltre l’immaginazione. L’ossessione della protezione ridurrà sempre più i contatti fisici e le relazioni sociali mentre la Rete ingloba fantasmaticamente il vedere e l’essere visti. Se nella modernità, la distopia costringeva l’utopia ad uscire da se stessa e dai suoi fallimenti, oggi, essa regna sovrana ma paradossalmente scuote e ridesta la coscienza alle nuove sfide globali.
RECENSIONE:
Il libretto di A. Meccariello (sono in tutto 80 pagine con la bibliografia e una postfazione di Giovanni Chimirri) rappresenta un utile introduzione al tema della distopia, soprattutto rispetto a quello storicamente originario della utopia.
L’autore ,infatti, parte dall’analisi della “Nuova Atlantide” di Francesco Bacone (1627) il testo inaugurale della modernità che gli serve per avviare un’argomentazione la cui tesi fondamentale è che “ la pandemia accelerando un processo in atto, ha spinto la distopia nel cuore malato dell’utopia a riprova che, nel presente, l’unica forma possibile di utopia è una distopia utopizzata o un’utopia distopizzata.”
Se oggi, come è sotto gli occhi di tutti, siamo ormai orfani di utopie, ciò che ci resta è dunque soltanto la possibilità di proiettare la visione del nostro mondo verso un futuro carico di incognite, difficoltà, pericoli. In questo senso sembra collocarsi su un versante diverso da quello della filosofa marxista Agnes Heller che contrappone piuttosto il vento dell’utopia al vortice della distopia che rischierebbe di risucchiarlo.
Se l’utopia è servita per secoli, praticamente dagli albori della modernità, quale motore della storia, spinta, tensione verso la realizzazione di un mondo migliore, oggi che questa ambizione sembra essere tragicamente scomparsa, resta soltanto questa rappresentazione di un futuro allucinante in cui gli incubi si sostituiscono ai sogni. D’altra parte le esperienze dei totalitarismi del Novecento e di due devastanti guerre mondiali non sembrano poter lasciare spazio al sogno. E piuttosto paiono presagire, appunto, quell’incubo con il quale continuiamo a dover fare i conti attraverso la distopia.
Dopo aver preso in esame alcuni luoghi filosofici ben noti intorno al tema dell’utopia, da Mannheim, a Popper, a Bloch, ad Huxley, ed aver riflettuto su alcune opere emblematiche, Il Nuovo Mondo di Huxley, il film La jetée (1962) di Cris Marker o Dissipatio H.G. di Guido Morselli, Meccariello giunge a elaborare una riflessione ben articolata sul rapporto tra tecnica e utopia: se infatti la tecnica era nelle prime manifestazioni della fantascienza e dell’utopia il motore del futuro, la speranza, l’energia del cambiamento, essa progressivamente diventa ciò di cui dobbiamo avere paura, ciò che può portarci alla rovina, alla catastrofe.
Decisiva qui è la svolta digitale che è l’ultima frontiera della tecnica. A questo proposito Meccariello è chiaro: “La possibile liquidazione dell’uomo e della civiltà, il definitivo sprofondamento della realtà nella rete digitale ossia nella scomparsa della fisicità sembrano essere i tratti di una società distopica della prossima storia futura.”
Paradossalmente, dunque, l’avanzamento della tecnica da un lato ha cominciato a realizzare alcuni dei sogni della letteratura utopica ma dall’altro lato ha reso anche possibile lo sviluppo di una contro letteratura distopica. L’Autore cita e illustra a titolo di esempio La macchina si ferma (1909) di Edward Morgan Foster, oppure Piano meccanico su Vonnegut. Fino al punto estremo della distruzione finale, immagine apocalittica che ritroviamo in molte opere, da La fine del mondo di Camilla Flammarion (1894) al Pianeta delle scimmie (1968), da L’ultimo uomo (1826) di Mary Shelley al Leopardi del Dialogo di un folletto e di uno gnomo, a La strada (2006) di Cormac McCarty: “La distopia contemporanea sembra oscillare tra catastrofi antiche e moderne affidando al pensiero il compito di normalizzare il senso della fine come utile esercizio platonico di preparazione al morire.” (60).
Alla conclusione del libretto l’autore si chiede se la distopia possa essere davvero una specie di sonda in grado di scandagliare i lati più oscuri della storia, e osserva che in fondo la storia stessa non è mai lineare ma piuttosto un movimento contorto che forse ha bisogno proprio di un indagine distopica per fare luce sui suoi abissi più profondi.
STEFANO ZAMPIERI