Ivan Žilin, protagonista di altre opere dei fratelli Strugackij, torna in questo romanzo tradotto per la prima volta in Italia, in veste di agente segreto che, in missione sulla Terra, deve indagare sulla corruzione della società capitalista e il dilagare delle droghe.
RECENSIONE
Ho già recensito su queste pagine La chiocciola sul pendio, Lunedì inizia Sabato e La città condannata, ora la collana Urania ci propone un inedito L’ultimo cerchio del paradiso, tradotto (dall’inglese) da Stefano Ternavasio e ritroviamo lo stile inconfondibile dei due immaginosi fratelli russi. Il romanzo è del 1965 e ci proietta in una società capitalistica del prossimo futuro, dove la moneta corrente è il marco, il cibo e le bevande non si pagano ma la gente è travolta da una pericolosissima nuova droga, che spesso porta alla morte. Il protagonista Ivan Zilin è un investigatore incaricato appunto di fare luce sulla diffusione di tale pericolosa sostanza (ma poi scopriremo che non si tratta affatto di una “sostanza”).
Lo stile è centrato sui dialoghi piuttosto che sulle descrizioni, infatti è piuttosto complesso ricostruire la trama ma anche solo l’ambientazione della storia. Gli autori procedono non in linea retta, ma per spirali, per approssimazioni, attraverso una infinita galleria di personaggi di cui non si comprende esattamente il ruolo e la funzione narrativa: la prostituta, il barbone, il filosofo ottimista, il doganiere, l’autista, l’ubriaco, un cyborg uscito di senno ecc.
Il protagonista, in incognito, si presenta come “turista e uomo di lettere” ed è una definizione particolarmente azzeccata, perché la sua indagine ha piuttosto la forma di un girovagare piuttosto casuale che non quella di una costruzione razionale. Però la narrazione non ha mai un momento di riposo, sembra di assistere, per dirla in termini cinematografici, a un lunghissimo piano-sequenza che si snoda dalla prima all’ultima pagina.
Spiccano le scene della festa popolare chiamata “Brividi” dove la gente si stordisce per non pensare a niente, e quelle di terrorismo di cui sono responsabili gli “intel” (che sta per intellettuali) verso i quali tutti i personaggi esprimono una sincero sentimento di odio. Ma il cuore della narrazione probabilmente è la vicenda dello “slug”, la nuova droga che consiste in un apparecchio elettrostimolatore, spesso nascosto dentro una semplice radio, cui il soggetto si abbandona mettendosi dentro una vasca piena d’acqua. È una droga che dà rapida dipendenza ma rischia sempre di portare alla morte colui che ne fa uso. Si tratta forse di una metafora che allude alla pericolosità dei mass media nel mondo occidentale?
Certo gli autori sembrano impietosi nel descrivere una società, l’ultimo cerchio del paradiso, come suggerisce il titolo, di natura tipicamente capitalistica, dove il divertimento è soltanto un modo per annullare la facoltà del pensiero, gli intellettuali sono stigmatizzati, e i media rappresentano una forma di stordimento dell’intelligenza, ma soprattutto i rapporti tra le persone appaiono scomposti, sempre sospetti, mai trasparenti, mai sinceri.
Con la loro consueta ironia i fratelli Strugackij, tuttavia, lasciano aperta la possibilità di estendere al mondo sovietico – pare di intuire che il protagonista viene da un altro mondo, un altro pianeta – le loro sottili osservazioni critiche. Riporto in questo senso un’affermazione che la dice lunga:
: “Ti dirò soltanto una cosa: se nel nome di un ideale una persona è spinta a compiere atti meschini, allora questo ideale vale meno della merda…” ,
un modo piuttosto aspro per sottrarsi a una facile collocazione ed esprimere piuttosto una radicale presa di posizione che non risparmia affatto il mondo sovietico. Anzi, il finale contiene una doppia determinazione: da un alto infatti il protagonista si lamenta: “Era impossibile che lì non esistesse nessuno che si fosse schierato dalla nostra parte, nessuno che odiasse tutto questo di un odio mortale, che volesse far saltare per aria quel mondo stupido e con la pancia sempre piena”, ma dall’altro ammette:
“Non sapevo ancora da dove cominciare, in quel Paese degli sciocchi colto di sorpresa dall’abbondanza, ma sapevo che non me ne sarei andato da lì finché me lo avrebbe consentito la legge sull’immigrazione. E quando non me l’avrebbe più consentito, l’avrei infranta…”
STEFANO ZAMPIERI