Salve amici di LDFO, il mio anno letterario sta procedendo nel migliore dei modi ed è per questo che non potevo tenere per me le considerazioni su una delle mie ultime letture: “Benedici la figlia cresciuta da una voce nella testa”, di Warsan Shire (edito da Fandango).
TRAMA
Nata in Kenya da famiglia somala fuggita dalla guerra civile, quando aveva appena un anno Warsan Shire e la sua famiglia si trasferiscono a Londra. Il suo primo libro di poesie, del 2011, Teaching My Mother How to Give Birth (Insegnando a mia madre come partorire) colpisce l’interesse della cantante e attrice Beyoncé, che le chiede di scrivere alcune poesie per il suo videoclip Lemonade. Da allora la carriera di Warsan Shire, che vive a Los Angeles, è in continua ascesa. Benedici la figlia cresciuta da una voce nella testa raccoglie i versi degli ultimi dieci anni di vita dell’autrice, in cui le sue elettrizzanti poesie hanno la risonanza dei classici. Ispirata dalla sua vita e dalle sue origini, come anche dalla cultura pop e dall’attualità, Shire canta la dignità, riscattandola, delle vite di immigrati, madri e figlie, donne nere e ragazze adolescenti. E se le sue poesie spesso sono forti – affrontando temi come la nostalgia dei rifugiati, la violenza della guerra e la mutilazione dei genitali femminili –, la sua scrittura resta incredibilmente seducente. In versi esplosivi, pieni di dolore e sofferenza, ma anche di grande vitalità, Shire ci parla di cosa vuol dire abitare un corpo di donna, di disturbi dell’alimentazione, di ossessioni compulsive, e tensioni irrisolte con la fede di appartenenza. “La poesia”, dice senza giri di parole Shire, “mi ha salvato la vita”, e la dote più significativa del suo libro è quella di generare empatia, qualcosa che sembra mancare nel nostro tempo.
RECENSIONE
A volte cerco di convincermi che sarebbe opportuno puntare su testi più “soft”, ma quelle poche volte che lo faccio provo quasi sempre un senso di insoddisfazione.
Forse sono masochista, ma se un libro non mi fa soffrire o, più poeticamente, non fa vibrare le corde dell’anima non mi sento appagata.
Da quando poetesse come Forugh Farrokhzad e, le più attuali, Susana Chávez Castillo e Rupi Kaur hanno fatto da apripista alla poesia di denuncia al femminile, sono state in molte a far sentire la propria voce. Giunge in Italia – grazie a Fandango e su traduzione di Paola Splendore – “Benedici la figlia cresciuta da una voce nella testa” di Warsan Shire, non conoscevo nulla del vissuto dell’autrice, ma quel titolo così denso di significato ha fatto scattare in me la curiosità e letteralmente alla cieca mi sono fiondata in questa nuova lettura.
Nata in Kenya nel 1988 da genitori somali e vive a Londra, tramite il lavoro di poetessa e scrittrice è diventata anche un’attivista; le sue parole fanno da cassa di risonanza per quelle minoranze che non vengono ascoltate o non sono adeguatamente rappresentate.
In questa silloge, con versi potenti e dolorosi, Warsan Shire mette il dito nella piaga e fa risuonare fragorosamente temi che, spesso e volentieri, ci inducono a tappare le orecchie, in primis: immigrazione e mutilazione dei genitali, ma anche violenza sessuale, morte, guerra, razzismo che sfocia in xenofobia e molto altro ancora. Non con l’intento di far gridare allo scandalo, bensì propone una sorta di manifesto sulla condizione dei rifugiati che, talvolta, lontani dalla propria terra natia si sentono come disancorati e alla deriva, in più non manca di esporre una riflessione generale sull’essere donna e di colore sempre col fine di avvalorare il suo dissenso.
BENEDICI LA TUA FIGLIA BRUTTA
Conosce a fondo la perdita.
Bambina evitata dai parenti,
sembrava legno scheggiato, odorava
di acqua di mare, richiamava
la sete, la guerra.
Neonata costretta a sciacquarsi la bocca con acqua
di rose, affumicata nell’uunsi per ogni
impurità che ha ereditato.
Tua figlia ne è piena.
I denti sono piccole colonie,
lo stomaco un’isola,
le cosce sono confini.
Pochi vorranno starsene sdraiati
a guardare il mondo che brucia
dalla stanza da letto.
La faccia di tua figlia è un piccolo tumulto,
le sue mani una guerra civile,
dietro ogni orecchio si nasconde un campo
di rifugiati, il suo corpo, un corpo sporcato
di brutte cose
ma Dio,
come lo porta bene
il mondo.
Resilienza è un termine oramai abusato, ma in questo caso si presta perfettamente nel darci un’idea della sensibilità poetica dell’autrice, di sicuro temprata da un vissuto amaro.
È incontrovertibile l’uso consapevole del linguaggio che genera poesie davvero espressive e audaci, ma soprattutto spudoratamente oneste.
Se già alla prima lettura le si trova “dirette”, rileggendole è possibile scovare ulteriori strati e contenuti.
Warsan ci ha fatto dono di un pezzo di sé, della sua terra, ha condiviso con noi storie di donne che hanno sofferto e di altre che si sono, in un certo senso, riscattate. Nei suoi componimenti non troverete mai vittimismo né autoreferenzialità.
Questo è uno di quei libri-rivelazione, ci sono brani che mi si sono letteralmente appiccati addosso.
Super consigliato!
Elisa R