Scritto nel 1962 ma pubblicato solo dieci anni dopo, è un romanzo che gira in modo abbastanza disordinato intorno ad alcuni temi classici della narrativa di Philip Dick. Ciò non deve stupire, io d’altra parte ho sempre immaginato i romanzi di Philip Dick come un unico grande affresco, è così che mi spiego il traballare delle trame, la mancanza di equilibrio dentro le singole opere, la presenza di personaggi ricorrenti e di tematiche che si inseguono da una pagina all’altra.
Questa ipotesi mi appare ancora più evidente leggendo L’androide Abramo Lincoln (We Can Build You).
TRAMA DE L’ANDROIDE DI ABRAMO LINCOLN
La storia, ambientata nel 1982, ci racconta di Louis Rosen, un produttore di organetti, che cerca di mettere sul mercato un nuovo prodotto, degli androidi, costruiti da un progetto di Pris Rock, la figlia del socio: una replica esatta di due personaggi famosi della storia americana: Abramo Lincoln e Edwin M. Stanton, il suo ministro della Guerra. Si tratta di due esseri sintetici ma esattamente simili ad esseri umani, anche nella capacità di avere sentimenti e di produrre analisi e riflessioni articolate. Risulta infatti assai arduo distinguerli da persone vere e proprie. Il solo compratore è un milionario avido e corrotto che progetta di usare gli androidi per colonizzare la luna.
I due androidi appaiono però difficili da gestire proprio perché replicano i caratteri non facili degli originali. Il protagonista è travolto da una storia d’amore con la giovanissima Pris, una diciottenne molto problematica, uscita dall’ospedale psichiatrico e schizofrenica. Progressivamente sembra che tutti i personaggi del romanzo finiscano per manifestare i segni di squilibrio mentale.
RECENSIONE DE L’ANDROIDE ABRAMO LINCOLN
D’altra parte l’America descritta appare dominata proprio dalla malattia mentale, case di cura ovunque, leggi che impongono controlli serrati, lo stesso protagonista non supera un test ed è ricoverato in clinica. Qui verrà sottoposto a esperimenti a base di droghe allucinogene nel corso delle quali sognerà di possedere la ragazza e di vivere una vita matrimoniale con lei.
Non è certo il romanzo più riuscito di Dick ma sicuramente è molto emblematico delle sue ossessioni, prima fra tutte l’incertezza nello stabilire un confine sicuro tra normalità e follia. Allo stesso modo appare labile il confine tra l’uomo e la macchina, tra naturale e artificiale. A questo proposito è il casi di leggere come Dick presenta il risveglio alla vita dell’androide:
“Al di là di ogni possibile dubbio, stavamo assistendo alla nascita di una creatura vivente. Adesso aveva cominciato ad accorgersi della nostra presenza; i suoi occhi, neri come l’inchiostro, si spostarono in su e in giù, a destra e a sinistra, inglobandoci tutti quanti, una carrellata dei presenti. Da quegli occhi non trapelava alcuna emozione, solo la percezione di noi che gli stavamo intorno. Un’espressione guardinga che superava le capacità di immaginazione di un uomo. L’astuzia di una forma di vita giunta da oltre i confini del nostro universo, interamente da un nuovo mondo. Una creatura piombata nel nostro tempo e spazio, consapevole di noi e di se stessa, della sua esistenza, qui fra noi; negli occhi neri e opachi roteavano, mettendo a fuoco e restando al tempo stesso sfocati, vedendo tutto e in un certo senso incapaci di distinguere la minima singola cosa.”
L’androide non come una macchina, dunque, ma come un essere più che umano, creatura di un nuovo mondo. Evoluzione dell’umano. È impossibile per Dick fissare un confine netto e invalicabile tra uomo e macchina, c’è piuttosto un’area di confusione che anticipa assai bene tutte le discussioni attuali sul post-umano. Ma si faccia attenzione : questa incertezza è simmetrica a quella tra follia e normalità. E non è un caso.
STEFANO ZAMPIERI