Recensione La morte dell’erba di John Christopher

La morte dell’erba è un grande, imperdibile, romanzo di John Christopher, pseudonimo di Samuel Youd prolifico autore inglese. Risale al 1956 ed è una delle prime opere nella quale compare l’immagine di una natura che travolge l’umanità in una apocalissi definitiva.

Tutto infatti ha inizio da un virus che si diffonde a partire dalla Cina (!) e distrugge l’erba, le piante graminacee, i cereali, frumento, orzo, segale, avena…, quindi anche il cibo per gli animali producendo così una drammatica carestia che coinvolge tutto il mondo. Si arriva a ipotizzare una drastica riduzione dell’umanità. Le autorità inglesi, il romanzo è ambientato in Inghilterra, progettano di bombardare molte grandi città per ridurre drasticamente la popolazione e dare così qualche chance di sopravvivenza ai pochi superstiti.
Un gruppetto di londinesi cerca di raggiungere la fattoria del fratello del protagonista, sita in un luogo ben difeso, in una valle isolata. Tutto il romanzo è costruito su questo drammatico viaggio nel corso del quale si assiste a una tragica mutazione: onesti cittadini, ligi alle leggi e moralmente ineccepibili, presi dal vortice della situazione eccezionale si trasformano per sopravvivere in spietati assassini. Le leggi morali vengono accantonate, assistiamo a scontri armati, a violenze sanguinose, “giustificate” dalla necessità della sopravvivenza.
Giunti dopo mille difficoltà alla fattoria, scoprono che i residenti non sono disposti ad accoglierli, ognuno pensa sé, ogni solidarietà è cancellata, nessuno è disposto a sacrificarsi per gli altri. Ne segue una vera e propria battaglia per la conquista di uno degli ultimi posti sicuri.

Il romanzo di Christopher tiene sempre il lettore in tensione ed è sicuramente molto coinvolgente. Tuttavia, vero protagonista non è la rivolta della natura come talvolta si dice, elemento certo presente ma in fondo marginale, al centro è piuttosto la debolezza umana, la fragilità dei suoi valori, l’egoismo di chi è disposto a tutto per sopravvivere. E soprattutto la fragilità delle istituzioni che non appaiono in grado di affrontare le situazioni veramente difficili, lasciando ai singoli individui il compito della sopravvivenza. Il lettore è colpito soprattutto dalla trasformazione dei personaggi: come le persone per bene messe alla prova della situazione estrema possano far emergere tutti gli istinti peggiori, questo è veramente inquietante, perché significa che non possiamo fidarci di nessuno, neanche di noi stessi.
Non so se sia veramente così, ma lo temo.

STEFANO ZAMPIERI 

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