Recensione Glitch di Andrea Manenti

Cari appassionati di distopia, fantascienza e…dei romanzi italiani


Ho letto Glitch, romanzo di Andrea Manenti, edito da La Nuova Carne Edizioni e ve ne parlo con piacere, trattandosi del romanzo d’esordio di un autore che, pur non definendosi ‘scrittore’, ha già pubblicato vari racconti e questo primo romanzo che, a mio parere, è molto promettente. Racconta di crepe nei muri e di viaggi nel tempo, ambientato in un’area urbana degradata ma non devastata, animata da personaggi molto peculiari, che intrattengono lunghissimi dialoghi dai quali emerge una trama ricca, stratificata, non lineare né ‘facile’ ma che alla fine si concretizza in uno svolgimento che, se non perfettamente soddisfacente per chi legge, ha la caratteristica di essere coerente e, rispetto alla storia, consequenziale.

RECENSIONE DI GLITCH
Ad avermi colpito maggiormente è la maturità della prosa, polita, pulita, lineare, matura, mai compiaciuta in giochi di parole o manierismi di sorta, ben adattata ai personaggi e agli ambienti, con spunti lirici notevoli, particolarmente in corrispondenza dei personaggi più riusciti, il professore di liceo, la nonna, la ragazzina.


Ottimo stile, secondo me, buon ritmo, bei personaggi sapientemente delineati, trovate originali e ben dosate, prosa fluida mai banale, notevoli accelerazioni della trama, per tutti questi motivi non sembra tanto un romanzo d’esordio quanto, se mai, l’opera di un autore più esperto, che maneggia con sicurezza i vari mezzi espressivi a sua disposizione. Mi sento di consigliare questo romanzo a chiunque ami la giovane (giovane, ripeto, non giovanilistica) letteratura italiana, a chiunque ami la distopia non di maniera e soprattutto a tutti coloro che sono curiosi di vedere come realtà culturali-editoriali ‘di nicchia’, indipendenti e anticonformistiche, riescano a confezionare prodotti di qualità senza nulla concedere alla cultura imperante dell’inclusività e del perbenismo politically correct.


Ci sono anche aspetti che, come lettore, ho gradito molto meno e che qui indico avendone, come ogni lettore che si rispetti e che ha speso qualche ora sul romanzo, ha il sacrosanto diritto di esprimere. Prima di tutto, la stessa lunghezza dei dialoghi, che pur molta atmosfera dona al romanzo, quando è eccessiva, tende alla piattezza e al rallentamento, fuor di metafora, annoia un po’. Sulle circa duecentodieci pagine del romanzo, a mio modestissimo parere, una decina buona, e tutte dialogiche, potrebbero essere cassate senza problemi. Seconda ‘critica’ ma lo ripeto, sono osservazioni di un lettore benevolo: va bene essere appassionatissimi lettori di Pynchon, Dick e qualche altro grande americano, va bene citarne titoli più e più volte, nel corso del proprio romanzo, ma a un certo punto il gioco stufa un po’ e sa un po’ di principiante, e non di principiante ingenuo ma di principiante un po’ saputello. Non che Manetti nel romanzo esageri costantemente, l’ho detto, ha scritto un gran bel romanzo, ma qualche volta, mi pare, esagera con ‘il tempo inverso’ e con il Jaywalker che sa degli Yo-Yo della Metro di New York di Pynchon. Oltretutto, il Jaywalking è una ‘minor offence’ negli USA e qualche afroamericano è stato arrestato con questa accusa assurda. Il Jaywalkin temporale, a ritroso nel tempo del romanzo è, secondo me, avviso, geniale!.


Ultimo appunto: da lettore appassionato di distopia italiana avrei apprezzato più spazio nella narrazione alla realtà urbana in cui l’azione si svolge e maggior spazio ad alcuni personaggi, particolarmente il professore e il protagonista. Una realtà distopica urbano-periferica con maggior sviluppo descrittivo e caratterizzazione avrebbe giovato parecchio al romanzo.
Avendo molto apprezzato quest’opera mi sento, da lettore sempre a caccia di nuovi libri italiani, di invitare l’autore a continuare a scrivere e ai suoi editori a persistere l’intelligente e intransigente scouting culturale e letterario che conducono ormai da qualche anno. Complimenti a tutti e buon lavoro.
Robrisso

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