La distopia tecnologica

Distopia, un termine abusato e spesso ammiccante, che da qualche anno è sulla bocca di tutti. Come discusso nel precedente articolo, l’utilizzo moderno, forse commerciale del termine, allude più a un’ambientazione catastrofica/opperssiva che al vero fulcro attorno al quale dovrebbero ruotare le storie.

La radice delle storie

Dipende dagli anni in cui sono state scritte. Una distopia moderna non può, e non dovrebbe, essere simile a una scritta nel 1920 per un semplice motivo: la nostra società è differente da quella di allora, e i pericoli e la paure che oscurano il nostro futuro non possono essere le stesse.

Prima che il termine distopia avesse la valenza pubblicitaria che ha oggi, i testi spesso venivano etichettati come fatastici, o fantascientifici, e questo ha portato molte persone a credere che la distopia sia nata con Orwell, o forse con Jack London, e che tratti principalmente di totalitarismi o di governi ingiusti.

Se si aguzza lo sguardo e si cerca con attenzione, si possoano trovare esempi più vecchi e meno noti del genere. Testi che affrontano agromenti meno terrificanti rispetto ai regimi che hanno segnato la storia, ma che mostrano come la “paura di un futuro invivibile” possa arrivare anche da ciò che dovrebbe aiutarci.

Ad esempio Storia filosofica dei secoli futuri (1860) di Ippolito Nievo, è un’opera che immagina la storia d’Italia dal 1860 al 2222. Il testo, scritto a metà tra trattato storico-politico e satira-fantapolitica, immagina l’Italia attraverso guerre, incredibili scoperte scientifiche e rivoluzioni societarieViene anticipata l’unità di Italia (1861) e ipotizzata una grande federazione europea in grado di governare oltre le intemperanze dei singoli stati. Apparentemente è un testo fantasicentifico, con sfumature utopiche, ma che ci mostra il lato oscuro del futuro (la distopia) attraverso gli esiti negativi e inattesi dell’utopia. Nievo rovescia il paradigma utopico, dimostrano che “l’umanità può distruggersi tanto rifiutando lo spirito prometeico, e quindi decadendo alla barbarie, quanto avendo troppa fiducia nel progresso tecnico-scientifico e, quindi, ignorando o non sapendo prevedere gli effetti collaterali negativi delle scoperte” (cit Campa R. La Storia filosofica dei secoli futuri di Ippolito Nievo come caso esemplare di letteratura dell’immaginario sociale).

Un tema che ritroviamo anche in altre opere di quel periodo, in piena rivoluzione industriale, in cui il progresso tecnologico incontrollato nasconde delle insidie più grandi dei benefici che apporta alla società. Tra le più famose, e semplici da reperire per chi volesse leggerle, si può citare La macchina del tempo (1895) e Il risveglio del dormiente (1898) di H.G. Wells, I cinquecento milioni della Bégum (1879) e Parigi nel XX secolo (1863) di Jules Verne.

Una paura che ritorna e che non passa mai

Superata la prima rivoluzione industriale, il fordismo da nuovo slancio all’ansia del futuro e porta le macchine a soverchiare l’umanità per renderla parte del grande ingranaggio della vita.

Come magistralmente mostrato nel film Tempi moderni (che potete vedere legalmente su molte piattaforme, vi metto il link di Dailymotion) il tema della disumanizzaizone e dell’assimilazione alle macchine diventa sempre più forte all’interno dell’immaginario collettivo di chi guarda al futuro con sospetto.

Tra le più importanti, almeno per me, c’è sicuramente R.U.R. (1920) di Karel Čapek. Probabilmente il titolo non dice nulla ma è il testo in cui è nata la parola robot (dal ceco robota, che significa lavoro faticoso). Čapek ipotizza una società in cui i robot umanoidi vengono creati per liberare l’umanità dal peso del lavoro, un proposito tecnologico “identico” a quello insito nell’automazione industriale figlia del fordismo, ma che ha come esito una ribellione violenta delle macchie contro i loro creatori.

La paura della schiavitù tecnologica è nata oltre un secolo fa e ancora, seppur in maniera differente, continua a terrorizzarci. Ed è proprio per “seppur in maniera differente” il punto focale del discorso e del mio preambolo a come le disotpie moderne non possono essere uguali a quelle del passato. Ipotizzare oggi di finire schiavi o essere trasformati in semplici ingranaggi di una grande macchina (come in Galaxy Express 999 di Leiji Matsumoto) è una paura fuori dal tempo e lontana dal progresso tecnologico che stiamo vivendo. Le paure di oggi, per il nostro domani, sono differenti e non hanno più a che fare con la supremazia fisica delle macchine sulla carne.

Non sta a me dirvi come deve essere un distopico moderno che parli della paura tecnologica, ma di sicuro posso dirvi che se “è copiato” ciò che faceva paura cinquanta, settanta o cento anni fa, non è un distopico: è un testo fantacientifico che ha un ambientazione catastrofica… e non è proprio la stessa cosa 😉

A presto.

Delos

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *