Il bellissimo libro di Franco Arminio “La cura dello sguardo. Nuova farmacia poetica” (Bompiani 2020), rappresenta certamente un caso singolare nella nostra letteratura. Se è vero che ogni grande libro è un testamento, questo ne è una conferma. È il bilancio che l’autore, noto poeta, fa per il suo sessantesimo anno. La forma però non è quella della poesia, quanto piuttosto quella del frammento inteso come superamento delle forme e dei generi (romanzo poesia trattato). Una forma che va oltre i generi e al contempo in qualche modo li contiene, perché è facile trovare in essi ora riflessioni articolate, ora narrazioni, ora immagini poetiche. Senza alcuna pretesa di affermare chissà quale sublime verità, anzi con la formidabile intenzione di far emergere quella che Savinio chiamava la “profondità della superficie”, far vedere come nelle cose di tutti i giorni negli eventi quotidiani, nelle banalità che costituiscono la nostra esistenza sia contenuto il germe di ogni profondità, di ogni valore, di ogni essenza. Far toccare con mano lo spessore filosofico della realtà quotidiana. “Ogni giornata è il vostro regno: convocate l’ebbrezza e la ragione, l’invisibile e la buona azione.”
Ed ecco allora attraverso il frammento emergere la poesia dei luoghi, le terre di campagna, la Calabria, il Salento, Taranto città apocalittica, l’Irpinia, la Lucania. Grande protagonista è il paesaggio, naturale e umano, osservato con la finezza della poesia, ma anche con l’impietosa fermezza della intelligenza. E insieme è la comunità degli uomini, non come forma di localismo, ma come articolazione di vita e di rapporti, perché “Vivere non è un affare privato” e “Bisogna agitare le acque, ci vuole una comunità ruscello più che una comunità pozzanghera.”
Continuamente Arminio passa dal diario all’ipotesi, al proposito, al desiderio, all’immaginazione, all’esortazione, fino alla distopia del vitavirus che riporta in vita i morti. Ecco l’incipit:
“VITAVIRUS La notizia più grande e inaudita della storia dell’umanità è arrivata ieri alle dieci del mattino. In un piccolo paese dell’Appennino italiano un morto è tornato in vita. Si tratta di un uomo sulla sessantina, deceduto qualche ora prima. Dopo i primi convulsi accertamenti la notizia del miracolo ha fatto in pochi secondi il giro del mondo. In poche ore la scena si è ripetuta nel cimitero di un paese dei Pirenei e a Berlino. (…)”
Nel libro di Arminio la morte ha un ruolo tutto speciale pare quasi che la scrittura per l’autore sia una sorta di educazione alla morte. “Sarebbe bello addormentarsi uomo e risvegliarsi foglia, sentir svanire tutta la sofferenza nello sbadiglio di un gatto”.
Ecco così si articolano i frammenti, uno dopo l’altro, perché la poesia, espressione che va intesa in senso molto largo, è prima di tutto una lezione di volo. Un muoversi libero sopra le cose, i fatti, la gente, con lo sguardo di chi sa andare oltre, sa allargare: “Il mondo è fatto così: se non lo allarghi si stringe.” E allora saper guardare diventa il segreto della vita buona. “Non siamo un luogo a sé stante, apparteniamo alla comunità di tutte le presenze, quelle visibili e quelle invisibili.”
Forse apparirà strano che “La cura dello sguardo” appaia in un sito che si chiama Leggere Distopico, ma è proprio in libri come questo che si annida il segreto della distopia, basterà riflettere su un frammento: “La vita è un incrocio di abitudine e avventura. La vita quotidiana è gradevole se contiene una vigilia, la speranza di un bacio, la prospettiva di un mondo altro.” In fondo la Distopia cerca solo di dar voce a questo mondo altro contenuto nel nostro quotidiano.
Stefano Zampieri